Le lasagne della mamma. Cucina italiana a Nizza

Le lasagne della mamma. Cucina italiana a Nizza

A pochi chilometri dalla frontiera, la cucina italiana diviene un fenomeno mangereccio straniante per i suoi maggiori consumatori, gli italiani. Il modo in cui viene presentata e rappresentata a Nizza, città mediterranea a pochi chilometri dalla Liguria, ci dice come l’identità di un luogo all’estero vada smontata e rimontata,

A pochi chilometri dalla frontiera, la cucina italiana diviene un fenomeno mangereccio straniante per i suoi maggiori consumatori, gli italiani. Il modo in cui viene presentata e rappresentata a Nizza, città mediterranea a pochi chilometri dalla Liguria, ci dice come l’identità di un luogo all’estero vada smontata e rimontata, ricostruita in variegate immagini che ci distanziano da noi stessi e ci consentono di gettare uno sguardo distaccato su di noi, diventando esotica, appena oltrepassato il confine.

Lasciate alle spalle Liguria e Piemonte, dove l’innovazione culinaria duetta con la riscoperta e valorizzazione di prodotti locali, spesso impreziositi dall’etichetta di presidio Slow Food, possiamo notare come a Nizza, in modi più o meno raffinati, la cucina italiana duetti invece con tradizione e identità regionali spesso reinventate, ma sempre evocate, e spesso con il simbolismo della famiglia e in particolare della mamma. La cucina italiana viene rappresentata da piatti tradizional-popolari che da noi trovano posto nelle trattorie, o ancor di più nelle tavole calde, e da cibo di strada presentato come raffinatezza e talvolta declinato in modi inediti, e in particolare da una serie di parole-feticcio che evocano sentimenti intensi e passionali.

Laddove in Italia esiste una robusta tradizione culinaria regionale, i ristoratori italiani di Nizza si caricano di un compito penelopesco, fare e disfare una trama dinamica di piatti rappresentativi delle regioni e delle produzioni territoriali ma in continua evoluzione e ripensamento.

Possiamo dividere i ristoranti italo-nizzardi in due gruppi: quelli che ricreano la tradizione in modo sofisticato ma sorprendentemente diverso da analoghe operazioni nella madrepatria, e quelli che si richiamano robustamente all’Italia della famiglia, della mamma, delle identità regionali, spesso mescolate nella ricerca di composizione di un’immagine nazionale.

E allora compiamo un giro flaneuristico per Nizza, attenti a non lasciarsi sfuggire dettagli incontrati lungo la strada.

Punto di partenza è la centrale Place Garibaldi, a poca distanza da un quai del porto dove nacque il generale destinato a ricomporre l’Italia perdendo al tempo stesso proprio Nizza. Place Garibaldi alberga un locale ingannatore, il Café Turin. Le reminiscenze italo-savoiarde si fermano qui. Il nome Turin vuole suggerire un locale raffinato, e il Café lo è, ma in realtà è un bar à huitres, noto per offrire ostriche freschissime e di diversa qualità, in particolare le Roumegous, insieme agli amati plateaux di molluschi che i francesi tanto amano e a bottiglie di champagne a tutte le ore. A Natale è uno spettacolo vedere il Café Turin esporre i suoi banchi di freschissime ostriche bretoni vendute a quintali, per una celebrazione a tavola piuttosto diversa dalla nostra. La sua allure italo-francese tira in egual modo turisti e nativi.

In questa bella piazza porticata si trova il primo dei nostri ristoranti, Sentimi, che ci tiene a presentare i suoi piatti come tradizionali, per quanto si discostino anche in modo lieve e positivo dalla tradizione. Uno dei prodigi dei ristoranti italiani è di scorporare singole parole dall’uso linguistico per densificarne tutto in valore simbolico generalmente legato all’emotività, al sentimento, alla tradizione e… alla famiglia. Entrando da Sentimi si lascia la Savoia storica e gallicizzata per fare il proprio ingresso in un ambiente mediterraneo e sensoriale, al centro del quale campeggia un albero di ulivo, con pareti grezze imbiancate a calce, quasi a suggerire un paesaggio pugliese anche se più genericamente e idealmente mediterraneo. Alle pareti foto di materie prime elevate a feticcio, quali semplici pomodori o aromi mediterranei. L’illustrazione del menu consiste in un cucchiaio traboccante farina. Ingredienti primordiali, evocativi di semplicità. Sentimi, come qualche altro ristorante, impiega ingredienti biologici provando a ricreare la pizza con ingredienti caseari alternativi come la crescenza o la burrata, aggiungendo talvolta dei tocchi originali come le scorzette di limone, le mandorle grigliate, la crema di zucca, i pinoli, oltre che zafferano, menta e curcuma. Stupisce l’utilizzo di un robusto classico in cotanta leggerezza, quale la mortadella al pistacchio nel ripieno. Una interessante sfida alla pizza classica, un po’ in contrasto con l’ambientazione mediterranea, quasi ci si sentisse obbligati a infilare nel menu cibi italiani classici.

Procedendo sul Boulevard Jean Jaurés, in direzione di Place Massena, si incontra Via Latina, una boutique-trattoria che, forse unica, riesce a trapiantare per un po’ il cliente nella verosimile atmosfera di una ristorante italiano, semplice, senza troppi fronzoli e con una variegata carta dei vini. Il menu si muove tra una tradizione non scontata e una moderata innovazione che fa sempre uso di prodotti consolidati. Fanno un inaspettato scivolone di tono proponendo a ventisei euro un “menu de la mama” – non si sa perché ma ai francesi piace dirlo così. Un locale-negozio che si vuole rappresentante dei formaggi e dei salumi italiani, vendendo al tempo stesso anche i corrispettivi francesi. La boutique sfoggia un bel campionario che cerca di tener conto di una gamma piuttosto varia di tipologie di prodotti caseari. Per i latticini la burrata figura accanto alla mozzarella di bufala. Il gorgonzola, che evidentemente piace ai gestori, è molto ben rappresentato nelle sue varianti dolce, piccante, al cucchiaio e con il mascarpone, che è elencato accanto ai latticini (potenza delle classificazioni). Poi il pecorino nella varie declinazioni sarda e romana, la toma piemontese di varie origini (Bra, Cuneo), il taleggio e il provolone. Anche i salumi, nonostante la grande varietà, trovano degna rappresentazione, dal felino al napoletano all’abruzzese e persino la nduja, con ben tre tipi di pancetta, pepata, dolce e affumicata, la bresaola, tre tipi di prosciutto crudo, tra cui il toscano, e infine svariati tipi di cotto. Qua e là fa capolino il tartufo, tanto amato dai francesi. La Toscana è ben rappresentata con lardo, prosciutto e salame. Buffo non vi sia il pecorino. Il campionario variegato, che deve essere costato un bel po’ di lavoro nel contatto con i produttori locali, aiuta a mettere insieme proposte gastronomiche credibili: si ha la scelta tra un tagliere toscano, sardo o calabrese oppure con una mescolanza tra regioni. I piatti proposti sono spesso dei classici dignitosi e non scontati, nei quali si vede la mano dello chef napoletano: una zuppa di pesce, gnocchi alla caprese, ravioli alla burrata con crema di basilico e pomodori, e tagliatelle alla pizzaiola che lasciano un po’ perplessi. Un tentativo ciclopico di rappresentanza equanime delle produzioni regionali, tutto sommato ben riuscito, e forse diretto non solo ai francesi ma ai numerosi italiani che passano di qua.

A Place Massena, risalendo ancora un po’ il Boulevard, troviamo Attimi. Sottotitolo “acqua, farina, calore” (riecco gli elementi primordiali). Si dedicano in particolare alla rivisitazione della Focaccia di Recco, “trasformata in un capolavoro di sapore e leggerezza” e con il contributo di prodotti squisitamente del territorio. La carta dei primi sfoggia spaghetti all’isolana con olive di Taggia e acciughe, capperi di Salina, lasagne alla bolognese, cannelloni ai funghi e taleggio, spaghetti du pecheur (una via di mezzo tra scoglio e pescatore con concessioni al vocabolario locale), pici ai gamberi in classico binomio con le zucchine e panna (la si ritrova, ahimè, spesso in abbinamento con i pomodorini), spaghetti alla carbonara con guanciale e grana padano (orrore), bucatini alla norma con provolone (che suscitano anch’essi qualche brivido purista), orecchiette al salmone fresco con robiola di capra di Roccaverano, ravioli ai carciofi e ragù di agnello. Una presentazione che punta alla qualità con qualche scivolone, in cui si bada più a mettere insieme ingredienti tradizionali che all’equilibrio dei sapori.

Scendendo nella città vecchia si incontrano diversi locali che fanno maggiore ricorso alla tradizione, con differenti strategie di immagine e gastronomiche.

Il ristorante toscano La piccola Italia, pur esibendo sulla sua insegna tricolore una patriottica fiorentina rossa, fa ampie concessioni alle tradizioni regionali-popolari con qualche reinvenzione che si colloca in uno scomodo luogo a metà tra il filologico e l’innovativo, insomma, una terra di nessuno poco convincente. Il menu sciorina rigatoni alla norma con… pecorino (ricordiamo che la pasta alla norma vuole la ricotta salata), pappardelle al cinghiale, cannelloni ricotta e spinaci, lasagne, una fantasiosa pasta con straccetti di manzo e peperoni, porcini e salsa fredda, spaghetti alla carbonara vegetariana con zucchine, penne con gamberi, asparagi, panna e pomodorini (sic), il classico risotto ai frutti di mare e altri primi semiclassici, dalle combinazioni senza infamia e senza lode. Le linguine alla Siracusa, con gamberi, pomodorini e mandorle, paiono essere un po’ un’invenzione della tradizione versus pasta alla siracusana, che vede alcune varianti ma è fondamentalmente a base di acciughe.

Ci suscita invece una decisa perplessità una pasta con gamberi, calamari e pesto, quale combinazione casuale di ingredienti, basta che ci sia la tradizione.

Il quartiere Vieux Nice pare albergare il cuore degli stereotipi. Un localino dal nome Pasta Menu offre una Bolognese della mamma a base di maiale e manzo con.. carote e un pesto di Papà Lino, fatto con basilico fresco e parmigiano.

Scendendo verso il lungomare troviamo Di più. Un nome che è un inno trionfale alla location, posta sul quai des Etats-Unis di fronte al mare e che sfoggia naturalmente una bella veranda con vista e cento coperti, con un inno spropositato dei suoi linguinis aux palourdes “classico”, che si trasformerebbero prodigiosamente grazie alla maestria della preparazione nelle mediterraneo – italiane linguine alle vongole nella loro migliore reincarnazione. Forse il nome giusto per questo ristorante potrebbe essere “di solito”, poiché si sforza di riproporre tutta una serie di piatti classici italiani tra le Alpi e l’Etna, in particolare i primi. Penne alla norma fanno bella mostra di sé accanto a penne all’arrabbiata, lasagne e cannelloni, a pappardelle ai fiori di zucca (un ingrediente passe-partout che salverebbe qualsiasi piatto) e a tortellini burrata e pomodori secchi, uno switch verso l’innovazione che non convince del tutto. Poi pasta con salmone e zucchine, gamberetti e rucola, classici da tavola calda o ristorante alla buona. Verrebbe da dire, “per fortuna ca ce sta o’ mare”.

Fedele alle radici, e decisamente verace appare Made in Sud, sul boulevard Franck Pilatte, scendendo dal porticciolo verso il mare. Qui i gestori napoletani hanno deciso di essere fieramente se stessi e propongono le pizze della tradizione partenopeo-italiana, tra margherita, al filetto, alla bufala, ai porcini, diavola, quattro formaggi, con la strizzata d’occhio della Reine. Osano addirittura proporre la pizza fritta alla scarola nonché la napoletanissima, localissima montanara, pizzetta fritta con il pomodoro, mentre nel locale fanno bella mostra di sé i pomodorini del piennolo. In mostra è l’orgoglio di mostrare ciò che si è senza fronzoli ed elucubrazioni riuscendo a essere premiati con un buon afflusso, dovuto certamente anche alla felicissima scelta della collocazione. La fedeltà alle radici premia.

Andiamo ora a dare un’occhiata al low-food, vale a dire le riproposizioni di cibo italiano in fascia bassa e con una robusta iniezione di stereotipi e produzione industriale, per quanto in alcuni casi alla ricerca della qualità. Ci inoltriamo nel territorio del franchising o delle grandi catene internazionali.

A Nizza possiamo trovare Ci gusta, una catena all’insegna del “buono, sano, italiano”. Ci gusta è nato dall’idea imprenditoriale di Dario Rabboni, che ha diffuso questa catena “cento per cento Made in Italy” in venti paesi, proponendo un pranzo di qualità e casuale al tempo stesso. Le proposte di pasta sono semplici e accattivanti, dal pesto di rucola alla crema di gamberi e curcuma, con pasta trafilata al bronzo e grani antichi. Più di tutto però “ci gusta” il pan crocchino, innovazione dall’ardito neologismo che indica un impasto brevettato al tempo stesso areato e croccante. Se pensate che ci gusta arriverà a Macao, beh, pensate anche a come un asiatico potrà percepire l’Italia.

Altro franchising, è Pizzicata, filiazione di Good in food, azienda nata dalla fertile mente di un altro Dario, Lispi, che ha pensato di preparare un impasto pronto per pizze. Dopo Fabriano e Terni Pizzicata è arrivato a Nizza, nei pressi del porto, con un’offerta media basata su hamburger e pizza. Colpisce in particolare l’insegna smaccatamente patriottica con bandiera e grafica tricolore, un cuoco baffuto e gioviale che reca in mano una pizza, e un’offerta di lasagne, panini, piadine, tiramisù. Un gran campione di identità nazional-popolare.

E per finire non può mancare la pasta italiana di Mc Donald’s Francia, Italian Mozza, commercializzata a partire dal 2017. Un’insalata fredda di radiatori con sparsi sopra dei pomodorini secchi, un ciuffo di rucola, un po’ di basilico sminuzzato, e una mozzarella di bufala bianca e stanca al centro, a ricomporre un’ideale bandiera. I radiatori lo paiono in senso letterale, la pasta è dura, molto più che al dente (per l’occasione digrignante). Come condimento facoltativo si può avere una sauce vinaigrette, alla quale i francesi non possono proprio rinunciare, con olio alla nocciola. Difficile non meticciare il cibo, di fronte a interessi nazionali così incrollabili.

E poiché ogni pasto in Italia è d’obbligo si concluda con il caffè, ne abbiamo qui uno Bellissimo, diffuso dalla catena di ottime boulangerie J. Multari. Difficile trovare tracce di questo caffè, che al posto del tricolore italiano alberga quello di Multari, bianco rosso e nero. Chi scrive questo articolo non è di per se una purista del caffè e lo ama anche nelle forme allungate. Ma non è ancora riuscita a capire quale sia la differenza tra il locale café au lait e il cappuccino. Stesso costo (2,40 euro), stessa tazza stretta e lievemente allargata in alto, in sostanza un maxi caffè macchiato, un’ombra di schiuma che si volatilizza in un fiat. Ecco, se qualche imprenditore vuole investire in Francia, che ci porti un buon cappuccino.

BARBARA CAPUTO

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