Yoga o dell’incompiutezza

Yoga o dell’incompiutezza

Emmanuel Carrère sembra lontano migliaia di pagine dal suo "L'avversario". Il nuovo lavoro lascia perplessi o, a voler esser buoni, appare come un inno all'incompiutezza

Troppe pagine paiono essere state sfogliate da che uscì un romanzo come “L’avversario”, storia di un simulatore che finse per diciotto anni di lavorare come medico e, scoperto, sterminò la famiglia. Emmanuel Carrère, il suo autore, si è via via avvicinato e unito alla schiera molteplice e non propriamente polifonica di coloro per i quali l’inchiostro deve allagare il campo bianco con i riflessi di una vocazione autobiografica o, per meglio dire, eterobiografica, con tanto di aspetti funzionali. Uno sforzo in larga misura di maniera e del quale non c’è poi, diciamoci la verità, questo gran bisogno, rispetto a vene più prolifiche che vedono scrittrici francesi come Annie Ernaux unire la vita alla storia.

L’ ultimo lavoro si intitola s’intitola Yoga (Adelphi) , un buon argomento per aprire il rubinetto di lettere e punteggiatura e del quale nel libro si parla, a esser di manica larga, più o meno per un terzo.

Fin qui, tuttavia, niente di che. Anche perché Carrère esordisce raccontando del suo soggiorno di meditazione Vipassana, interrotto al quarto giorno a causa dell’attentato al Charlie Hebdo in cui ha trovato la morte anche un suo amico, l’economista Bernard Maris. Nel riflettere tra l’estraniamento e il coinvolgimento rispetto al mondo, lo scrittore sceglie quest’ultimo, scrivendo il discorso funebre per Bertrand. Cala il sipario su questa esperienza e ritroviamo lo scrittore di nuovo nelle spire del disturbo bipolare di cui soffriva ignaro, e diagnosticato con deciso ritardo, dopo dieci anni di benessere e probabilmente a causa della rottura di un rapporto sentimentale. Si tratta, a dispetto dei tanti anni di meditazione, di una crisi durissima, in cui lo Carrère è arrivato a meditare il suicidio e a richiedere l’eutanasia. La sorella e il suo agente decidono di autorizzare una serie di elettroshock, alla conclusione dei quali le sue facoltà mnemoniche risultano compromesse. Finalmente, dopo anni di analisi, il narratore assume litio e gli sbalzi di umore si appianano, per lo scorno dei nemici dello psicofarmaco. Carrère dà una definizione geniale del bipolare due, cacciarsi nei guai e nel tentativo di levarsene mettersi ancor più nei casini. Peccato che anche questa parte voli via insieme allo scrittore, che nel tentativo di riprendersi si reca prima in Iraq per un reportage, poi a Patmos nella villa di famiglia e infine, spinto dall’irrequietezza, a Leros per affiancare una storica in pensione in un corso per rifugiati. Di tutti i personaggi del libro, Erica risulta la più coerente, sorella gemella di una schizofrenica (o forse autistica?) finita nel nulla e stremata dagli amanti manipolatori e dal figlio lontano, che decide di andare a cercare.

Lungo la narrazione il Carrère amatore fa una figura miserina, prima in una lunga scena di sesso in cui pare l’unica cosa interessante siano i suoi colpi di reni, poi in un tentativo fallito di corteggiamento di una ragazza in Grecia, infine a caccia di una giovane praticante di Yoga, in un anelito di vita.

Senza volere attribuire diagnosi o anamnesi, la narrazione ricorda la personalità bipolare, nota per la sua incostanza. Difficile capire dove la nudità di Carrère sia autentica o costruita, e perché gli piaccia tanto mostrare con romanticismo un po’ gigione il suo debole per le donne, talora un po’ melenso, lì dove Chatwin nel narrare i suoi viaggi ha sempre taciuto della sua vita privata, di cui è morto. Gli variati episodi non raggiungono coerenza di narrazione, appaiono réportage slegati tra loro lì dove avrebbero potuto nascere due o tre libri differenti. O forse Carrère vuole proprio dirci che la vita è così, fatta di alti, bassi, svicolamenti, fughe, eterni ricominciamenti effimeri, come accade spesso tra le persone bipolari e forse in tutti.

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