Da Barbie a Barbara. Metamorfosi di una bambola

Dopo aver visto Barbie in versione originale all’Anteo di Milano, ed esserci deliziati come non ci accadeva dalla narrazione postmoderna dell’era postglaciale, ne usciamo con una ferma convinzione. Questo film s’ha da vedere. I livelli sono tanti, e tutti altrettanto godibili, supportati da una sceneggiatura tanto leggera quanto informata dagli studi di genere, che non sono l’inesistente “gender”, ma uno studio sulla produzione e riproduzione delle differenze sessuali.

E dunque, al momento stesso in cui riviviamo, soprattutto noi donne, in modo potenziato i nostri sogni di bambine, in una fantastica Barbieland in cui si abita in case aperte, si fa finta di sorseggiare latte inesistente da cartoni di plastica e si va in giro in decappottabili rosa in un mondo tutto rosa, con un contorno di spiaggia di plastica con onde di plastica, possiamo assistere a un rovesciamento straniato degno delle Lettere Persiane.

Nel Barbie mondo, a parte la Barbie Stereotype che in sostanza non fa niente a parte essere perfetta, tutte le Barbie svolgono una professione estremamente appagante, quale la Presidente di una Casa Rosa, il medico, l’astronauta, senza dimenticare una Barbie super curvy.

I Ken invece sono sostanzialmente ridotti al ruolo di insipidi cicisbei tutti presi a cercare di attirare l’attenzione delle Barbie rivaleggiando tra loro. In un mondo privo di genitali non dormono nemmeno con le loro partner, probabilmente non hanno nemmeno una casa.

Il rovesciamento si ha nel giorno in cui Barbie Stereotype inizia ad avere pensieri di morte che smagliano il suo mondo perfetto. Perde persino il caratteristico piede arcuato atto a supportare tacchi alti, e per riparare deve recarsi (in Birkenstock, una delle parti più esilaranti del film) nel mondo reale, a Los Angeles, dove troverà un mondo mascolinizzato in cui le donne sono considerate oggetti, perlopiù subalterne e molto raramente con ruoli apicali.

Per Ken sarà però la grande occasione per rivendicare un ruolo più da protagonista dei maschioni plastificati e tentare un putsch nel mondo delle Barbie, fatto in modo esilarante di birre, cavalli (stalloni) e un po’ di corredo da Old West.

Non vogliamo andare oltre nella descrizione. Il film è geniale tanto al primo livello della narrazione immediata, quanto al terzo delle citazioni da pescare un po’ ovunque, che vanno dal CEO Mattel stranamente somigliante a Bush, a balletti con il calzino di Michael Jackson, persino a Proust, che certamente merita più di comparire qui che in un treno per Foggia.

Come alla fine del libro Pinocchio, anche Barbie Stereotype da bambola diventerà umana, passando da Barbie a Barbara, e reimpossessandosi in modo veramente femminista dei suoi genitali. Ma è solo il primo passo. La costruzione dell’umano in un mondo di differenze è lunga e faticosa, e si rischia di scadere nel banale prefigurando solo dolci momenti di vita quotidiana, in realtà contesti rischiosi in cui si rischia di venire inscatolate e stritolate in troppi ruoli.

Bravissimi gli attori, a iniziare dai super bamboloni Margot Robbie, bravissima nelle sue microespressioni barbiesche, e Ryan Gosling, altrettanto bravo nel passare dalla versione cicisbeo plastificato a quella di caricatura machista da epopea americana.

Per la cronaca, la Barbie merchandising del film costa 75 euro. Alla fine, tutto è sempre e comunque mercato.

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