L’insostenibile leggerezza di Shondaland

Se le due prime serie Bridgerton approcciavano timidamente temi di interesse sociale, La Regina Carlotta è il vero capolavoro in senso popolare, come lo sono i romanzi di Balzac, di Dumas o di Conan Doyle. Ma anche di più, perché tratta il tema di un re mentalmente fragile e dell’amorosa accettazione della moglie. Se Re Giorgio fosse affetto da psicosi, mania, porfirìa mal curata ancora non sappiamo. Il serial è ambiguo, l’accenno ai dolori addominali e i tremori alle mani lasciano intendere per l’ipotesi porfirìa, le visioni per la mania. Bellissime le scene in cui il mondo è percepito dalla mente fragile di Giorgio, lasciando intravedere la sua fatica in ogni gesto quotidiano. Lasciano pensare alla bellissima scena di crollo psicologico ne La signora Dalloway. Ma la Regina Carlotta non traccia altro che la metafora di un essere umano qualsiasi, schiacciato dalle pretese di perfezione dei genitori e del mondo. Bene. A questo punto siamo contenti che Netflix sia diffuso in 180 paesi, siamo contenti dei suoi What the fuck. Saremmo contenti se questi serial rendessero veramente il mondo un posto migliore, ma non tutti siamo re Giorgio III e già la chiusura dei manicomi e l’abdicare parziale del potere psichiatrico sono una grande conquista. Non resta che la metis.

Il tema della sofferenza mentale fa retrocedere in secondo piano quello della convivenza interculturale, metafora dell’odierna Gran Bretagna. E veniamo al “come se”, il come se che fu splendidamente inaugurato da José Saramago nella Storia dell’assedio di Lisbona. Autore e libro che mi furono fatti conoscere dal mio ex marito quando era un dolce ragazzo di poche speranze. Come se di cui parla naturalmente Nanni Moretti nel suo ultimi film. Ecco, la Regina Carlotta è un “come se” al quadrato. Come sarebbe stata la storia se l’integrazione tra neri e bianchi fosse accaduta tre secoli prima? Come sarebbe stata la storia della malattia mentale se chi era loro vicino avesse parlato il loro linguaggio delirante? Il come se però possiamo avverarlo ora, in un qui e ora che non è semplice e catartico come fare binge watching, ma molto più vero e gratificante.

spot_img

Explore more

spot_img

L’animale che mi porto dentro. Pane e xenofobia in Transilvania

Arriva sul piccolo schermo, e precidamente su MyMovies, "Animali selvatici" di Christian Mungiu, presentato lo scorso anno a Cannes e approdato nelle nostre sale...

Bauryna Salu. Lì dove l’Unicef non arriva

Se può esserci un punto a favore dell'universalità della psiche umana e dell'importanza dei legami di attaccamento primari, è in questo film di Askhat...

Fescaal n. 33 . Seconde generazioni

Chi ha vissuto i tempi pionieristici di quello che allora si chiamava ancora Festival del Cinema Africano ricorda i percorsi acrobatici tra i vari...

Sul Naviglio Grande con Luca Crovi

Ieri Luca Crovi ci ha portati a fare una passeggiata tra Naviglio Grande e Darsena, sfoggiando la sua inesauribile miniera di dettagli ed episodi...
Il confine tra Cologno e Sesto San Giovanni. Uno spazio apparentemente anodino ma denso di percorsi e pratiche

Un (commosso) ricordo di Marc Augé, etnologo della città.

Non ho mai letto l'Augé africanista e strutturalista, lo confesso. Ho iniziato a leggerlo con l'uscita di Un etnologo nel metrò, pubblicato in Italia...

Da Barbie a Barbara. Metamorfosi di una bambola

Dopo aver visto Barbie in versione originale all'Anteo di Milano, ed esserci deliziati come non ci accadeva dalla narrazione postmoderna dell'era postglaciale, ne usciamo...

Bud Spencer a Seoul

Bud Spencer è vivo, si è solo trasferito in Corea, si chiama Ma-Seok Do, è un pezzo di gigante che ti sfracella con una...

Dieci giorni al ritmo di hard boiled

Netflix può essere paragonato al limo di un fiume dove setacciare pazientemente l'oro dal fango. Tramite una certosina e accorta opera di richiamo di...