L’animale che mi porto dentro. Pane e xenofobia in Transilvania

Arriva sul piccolo schermo, e precidamente su MyMovies, “Animali selvatici” di Christian Mungiu, presentato lo scorso anno a Cannes e approdato nelle nostre sale in estate. Mungiu, divenuto noto per “4 mesi, tre settimane e due giorni”, che parlava di aborto nella Romania post-Ceausescu e ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2007, è al suo quinto lungometraggio, sparso su una non prolifica scia di una creazione filmica ogni quattro o cinque anni.

Tra lui e Radu Jude, si ha l’impressione che i registi romeni abbiano una preziosa capacità di esprimere le contraddizioni della società romena in modo caotico e satirico che scivola inesorabilmente verso l’entropia.

Nel caso di questo ultimo film di Mungiu, si contrappongono le personalità del sanguigno Mathias, che lascia il mattatoio in cui lavorava in Germania -terribili le scene delle pecore dalle teste mozzate sulla linea di produzione, forse un preludio simbolico – per tornare in Transilvania, dove tra i tetti di fata, le cime innevate e le minoranze linguistiche si è insediata l’Europa, incarnata nei sussidi per un panificio dove bisognerà però assumere tre operai srilankesi per giunta anche cristiani.

La popolazione tutta insorge, boicotta il pane, addosssando ai poveri tre Cristi tutti i mali della società, dalla scarsa igiene, alla religione diversa (anche se sono cristiani “non si sa mai”), all’emigrazione della popolazione maschile, alle Mercedes dei padroni eccetera eccetera. Nella sala comunale avviene una mirabile scena di sovranismo in miniatura, nella quale i locali sbeffeggiano il cooperante francese venuto a contare gli orsi nella foresta dimostrando di fregarsene di lui, degli orsi e della douce France.

C’è poi la vita di Mathias, preso tra un bambino muto a causa di una terrificante visione nel bosco, una moglie con cui è separato di fatto, l’improbabile legame con Csilla, manager del panificio e suonatrice di violoncello. Il film, come d’altra parte in Sesso sfortunato e follie porno di Radu Jude, si conclude con una scoppiettante esplosione di contraddizioni che si richiude sulla tomba “simbolica o forse anche no” della vittima di turno che ha la colpa di essersi dimostrata diversa da un sistema ipocrita, e tutto sommato anche strafottente delle convenzioni sociali. Ma di vittime, in questo film, ce ne sono tante.

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